I lettori del blog mi scuseranno se rimando di qualche giorno la pubblicazione della terza ed ultima parte del post
Quelli che "le banche centrali di paesi terzi potrebbero addirittura guadagnarci, da una dissoluzione dell'euro" ma il fatto è che il dibattito sull'€ è stato arricchito (si scherza, eh) nei giorni scorsi da alcune perle che meritano attenzione ed un commento a caldo.
Ecco le perle in questione, in ordine cronologico:
martedì 18 ottobre: il Manifesto pubblica un intervento di Antonella Stirati e Maurizio Zenezini intitolato
L’euro e il gold standard d’accordo con Keynes, meglio di no
martedi 18 ottobre: il blog magazine
facciamosinistra! pubblica un intervento di Sergio Cesaratto intitolato
Brexit e dintorni
Mercoledì 19 ottobre: Il Fatto Quotidiano pubblica un articolo di Alberto Bagnai, firmato anche dal
rosso di Nomura Jens Nordvig, intitolato
EURO-EXIT E CATASTROFISTI, QUALCHE DATO SUL DEBITO.
Per consultare l'articolo direttamente sul FQ è necessario essere abbonati (detto per inciso: da alcuni mesi Bagnai non pubblica più interventi sul blog che il FQ gli ha messo a disposizione perché non può filtrare i commenti ma continua a pubblicare articoli sul FQ cartaceo e sulla versione per gli abbonati online, evidentemente al FQ si sono accorti che i seguaci della setta sono piuttosto attivi e vendere qualche copia in più del cartaceo e qualche abbonamento online in più non gli fa schifo pur essendo Bagnai molto lontano dalla linea editoriale del giornale) ma la consultazione è possibile anche sul sito dell'associazione
a/simmetrie presieduta dallo stesso Bagnai.
Perla n. 1
Antonella Stirati e Maurizio Zenezini con il contributo
L’euro e il gold standard d’accordo con Keynes, meglio di no intendono rispondere alla domanda
quali potrebbero essere le conseguenze per il mondo del lavoro di una dissoluzione della moneta unica?
una domanda fatta da Giorgio Lunghini in un breve intervento dopo il vespaio suscitato dal suo intervento "catastrofista" del 23 settembre pubblicato dal Manifesto.
I due autori sostengono che l’alternativa euro/non euro dev’essere valutata alla luce dell’obiettivo prioritario di forze politiche progressiste, quello della piena occupazione e di migliori condizioni di lavoro. Noi riteniamo che la crescita dell’occupazione si possa avere solo con una forte ripresa della domanda, una strategia impossibile nell’attuale palinsesto della politica economica europea.
La ripresa della domanda non può iniziare dai consumi o dagli investimenti privati, perché questi non hanno modo né ragione di ripartire in una economia depressa (...).
Lo stimolo iniziale può dunque venire o da una ripresa delle esportazioni o dalla spesa pubblica.
Ma
Le esportazioni sono recentemente aumentate verso i paesi extra-eurozona, grazie alla politica di Draghi che ha fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro, ma la crescita è rimasta asfittica.
quindi
Non ci resta che l’espansione della spesa pubblica, che suscita timori per il debito pubblico.
Ma
in un paese che gode di sovranità monetaria, il vincolo vero alla crescita della spesa pubblica non è il debito pubblico (semmai sono le politiche di austerità che fanno crescere il debito in rapporto al Pil), bensì il vincolo esterno cioè l’eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni che si può verificare con una crescita della domanda e della produzione interna.
quindi, una volta recuperata la sovranità monetaria,
l’Italia dovrebbe affidarsi ad un mix di strumenti in grado di sostenere la spesa pubblica (per altro indispensabile se non vogliamo distruggere scuola, ricerca, sanità, infrastrutture) con una politica monetaria accomodante, una svalutazione della moneta rispetto a quei paesi europei verso i quali c’è stato un apprezzamento del tasso di cambio reale (la svalutazione non fa miracoli, ma contribuisce a tenere a bada i conti esteri in un paese manifatturiero) e con politiche industriali orientate ad attenuare il vincolo esterno.
In estrema sintesi i due autori, per favorire la crescita dell'occupazione, propongono di:
1. recuperare la sovranità monetaria
2. aumentare il debito pubblico per aumentare la spesa pubblica per stimolare la ripresa della domanda e favorire così la crescita dell'occupazione
3. gestire la svalutazione per frenare l'import in modo da tenere a bada i conti esteri
Purtroppo questo schema è del tutto astratto ed inservibile perché
1. sottovaluta in modo assolutamente superficiale l'inevitabile crisi del sistema bancario e finanziario nazionale che si aprirebbe alle prime avvisaglie di una rottura dell'€zona
2. non tiene conto del più che probabile impatto negativo della svalutazione della nuova moneta nazionale sulla quota salari e sui salari reali, cone dimostrano numerosi episodi del passato
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Fonte: Realfonzo e Viscione (2015) |
per non parlare dell'impatto negativo sull'occupazione
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Fonte: Realfonzo e Viscione (2015) |
3. tralascia il fatto che la svalutazione non è uno strumento che consente di correggere automaticamente i conti esteri squilibrati ( sull'impatto della svalutazione della sterlina sui salari e sui conti esteri inglesi è utile un recentissimo contributo di Francesco Lenzi)
Se non si considerano con la dovuta attenzione questi dati e tutti gli aspetti della questione, dire che L’abbandono della moneta unica potrebbe riconsegnare ai governi nazionali, soggetti al giudizio degli elettori, l’insieme degli strumenti di politica macroeconomica utilizzabili per far crescere l’occupazione è solo wishful thinking a buon mercato.
Perla n.2
L'intervento di Cesaratto è molto denso, talmente denso che in certi passaggi le considerazioni si accavallano in modo contraddittorio, come se il testo fosse stato scritto di getto e pubblicato senza una rilettura, senza una ripulitura.
Le riflessioni di Cesaratto partono dal referendum sulla Brexit per arrivare al caso Italia: secondo Cesaratto Il risultato della Brexit è certamente una nostra vittoria. Anche se non va scordato che è un’uscita a destra, in nome della deregulation liberista e di sentimenti anti-immigrazione, non di una chiara difesa dei diritti sociali ulteriormente smantellati da Cameron (sicché parte del Labour ha visto nell’UE una qualche protezione dall’ultra liberismo City-Thatcher-Blair-Cameron).
Quindi un'uscita a destra è una vittoria della sinistra o è semplicemente la vittoria di chi auspica la rottura dell'€zona e dell'UE a prescindere? Non si capisce ...
E le conseguenze economiche della Brexit quali saranno?
Vedremo quello che succede sul piano economico - scrive Cesaratto - ma avanzo la previsione che non succederà gran che. Non è un cataclisma, e perché lo dovrebbe essere? [...] L’assenza di maggiori sconquassi sarà un argomento a favore di chi ritiene una rottura dell’euro possibile.
Poi fa una capriola e lascia intendere che per noi uscire dall'€ non sarà indolore:
Naturalmente qui le cose sono molto più complicate, lo sconquasso iniziale assai più profondo come ripristinare i sistemi di pagamento nazionali; quello di medio periodo più lento a digerirsi, in particolare il contenzioso sui debiti ridenominati in valute nazionali.
Pur essendo meno superficiale dei due autori della Perla n.1, anche Cesaratto appartiene al partito ASPEDAP (Aumentiamo Spesa Pubblica E Debito A Prescindere) con la differenza che lui strizza l'occhiolino al pianeta MMT:
Dobbiamo mettere al centro l’occupazione, dire chiaramente che le politiche per crearla ci sono. Serve una proposta di creazione immediata di almeno due milioni di posti di lavoro. Qui le proposte MMT sullo “Stato come datore di lavoro di ultima istanza” sono rilevanti.
Creazione immediata di almeno due milioni di posti di lavoro ??!!
Bagnai, nel suo ultimo libro, prefigurava la creazione di un milione di posti di lavoro grazie al ritorno alla moneta nazionale, adesso Cesaratto punta al raddoppio ma come si conciliano queste proiezioni a dir poco velleitarie con i dati citati in precedenza, relativi all'impatto negativo delle svalutazioni su quota salari, salari reali e occupazione e con le inevitabili difficoltà legate non solo ad una svalutazione più o meno consistente ma anche al cambiamento della moneta e delle relazioni economiche con l'UE? Questo punto non è per niente chiaro, Cesaratto non ne parla ma il presupposto di una eventuale conciliazione è abbastanza ovvio perché non può che prodursi ignorando o sottostimando, come da 5 anni sta facendo Bagnai, le difficoltà inerenti al cambiamento della moneta.
Perla n. 3
La superficialità con la quale il fronte #noeuro minimizza i rischi di un eventuale ritorno alla Lira è eclatante nell'intervento di Alberto Bagnai, firmato anche da Jens Nordvig, intitolato EURO-EXIT E CATASTROFISTI, QUALCHE DATO SUL DEBITO
Preannunciato da un tweet sommesso
in perfetta sintonia con la proverbiale umiltà del personaggio, l'intervento di Bagnai è di fatto una filippica contro i catastrofisti: secondo Bagnai chi sostiene che uscire dall'euro sarebbe disastroso deve spiegarci bene il perché.
L’onere della prova infatti cade sui catastrofisti, poiché l’evidenza storica è contro di loro.
E non solo l'evidenza storica: anche i dati relativi alla composizione del debito pubblico e del debito privato ci dicono, secondo Bagnai, che parlare di catastrofi epocali per rifiutarsi di analizzare la realtà non aiuta a minimizzare i costi di una eventuale uscita (voluta o subita), individuando e gestendo razionalmente le vere priorità.
L'argomentazione di Bagnai contro il catastrofismo si sviluppa lungo le tre direttrici di cui si è detto cioè analizzando l'evidenza storica ed i dati relativi alla composizione del debito pubblico e del debito privato.
Bagnai dice che chi sostiene che uscire dall'euro sarebbe disastroso deve spiegarci bene il perché.
Vediamo intanto se lui per primo riesce a spiegare bene perché uscire non sarebbe disastroso.
L'evidenza storica
Secondo Bagnai il catastrofismo è contraddetto dall'evidenza storica perché lo studio più autorevole sulla dissoluzione di unioni monetarie, condotto da Andrew Rose all’Università della California, chiarisce che nei 69 casi verificatisi nel dopoguerra “non si registrano movimenti macroeconomici violenti prima, durante o dopo un’uscita”.
Ma se andiamo a vedere lo studio di Andrew Rose cosa si nota subito? Si nota la tabella dei paesi che nel dopoguerra sono usciti da una unione monetaria:
E cosa ci dice questa tabella? Ci dice che lo studio di Rose non serve a nulla perché la casistica presa in esame non ci può dare nessuna indicazione significativa sulle conseguenze di una eventuale uscita dell'Italia dall'euro e la dissoluzione dell'€zona: gli episodi considerati sono troppo lontani nel tempo, poco significativi sul piano dell'economia globale ed i paesi europei sono solo tre (Cipro, Irlanda, Malta) e sono troppo piccoli per essere indicativi.
La questione del debito pubblico in mano estera
Secondo Bagnai è sbagliato ritenere che il debito pubblico in mano estera sia un problema reale perché il base al principio della Lex monetae, sancito negli articoli 1277 e seguenti del Codice civile: uno stato sovrano può stabilire in quale moneta debbano essere estinte le obbligazioni regolate da legge nazionale.
Quindi
L’elemento determinante non è la nazionalità dei contraenti, ma quale diritto (nazionale o estero) regoli il contratto.
Bagnai fa un esempio:
Quindi se un tedesco detiene un Btp emesso sotto legislazione italiana, dovrà rassegnarsi a essere rimborsato in valuta nazionale svalutata.
Succede ogni giorno sui mercati: pensate agli investitori che avevano titoli denominati in sterline prima della Brexit (in seguito alla quale la sterlina si è svalutata del 15%). Viceversa, se il titolo è emesso sotto legislazione estera dovrà essere rimborsato nella valuta prevista dal contratto (verosimilmente euro), perché il governo italiano non può ri-denominare nel nuovo conio un contratto che non cade sotto la sua giurisdizione.
Quanti sono allora i Titoli di Stato emessi sotto legislazione estera che non potranno essere ridenominati in base alla Lex monetae ?
Ce lo dice Bagnai:
In Costs and benefits of Eurozone breakup uno degli autori di questo articolo ha calcolato la percentuale di debito pubblico sotto legislazione estera: solo il 6% di quello in mano estera, ovvero 44 miliardi di euro. Una svalutazione del 20% aggraverebbe quindi di soli 9 miliardi il rimborso del debito pubblico: un impegno sostenibile.
Quindi? Quindi nessuna catastrofe: con una svalutazione del 20% si avrebbe, secondo Bagnai, un danno sopportabile di appena 9 miliarducci, nulla di preoccupante.
Questa sì che è una "prova" che può stendere i catastrofisti ...
Ma le cose stanno davvero così?
Non proprio ...
A parte che non è corretto fare certi calcoli mischiando le stime di Nordvig pubblicate nel 2014 con i valori del debito pubblico di fine 2015, a parte il fatto che rimborsare un debito pubblico con una moneta svalutata determina in ogni caso nel medio lungo periodo un problema di credibilità internazionale, il punto da cui partire per un'analisi seria è che non tutto il debito pubblico è costituito da Titoli di Stato e per fare certi calcoli e certe proiezioni in modo corretto e preciso bisogna tener conto della composizione dei Titoli di Stato in circolazione. A tal proposito l'ultimo dato disponibile è il seguente:
Come si vede dal "disegnino" la percentuale di Titoli di Stato attualmente in circolazione sotto legislazione estera corrisponde al 2,55% del totale per un controvalore di 47 miliardi e 567 milioni di euro.
Se la nuova moneta nazionale si svalutasse domani del 20% la corrispondente perdita di valore dei Titoli di Stato sotto legislazione estera ci costerebbe effettivamente circa 9 miliarducci? La risposta è Sì ...
Ma se il riallineamento fosse più consistente ? Nel 2013 lo stesso Bagnai diceva che il riallineamento atteso è dell’ordine del 30%, distribuito lungo l’arco di almeno un anno.
In tal caso la perdita potrebbe essere ragguardevole, anche se distribuita nel tempo: circa 14 miliardi.
E se il riallineamento fosse ancora più consistente? Nel 1992, prima della svalutazione, il marco valeva stabilmente circa 750 lire, nell'aprile del 1995 la lira toccò quota 1255 contro il marco, con una svalutazione, sui tre anni, del 59%.
Quanto ci costerebbe una svalutazione del 50% nell'arco di un triennio?
Ovviamente Bagnai ci presenta solo lo scenario soft per convincere più facilmente i lettori che i catastrofisti sbagliano ma il punto non è questo, il punto è che purtroppo tutte queste proiezioni ed ipotesi sull'impatto di una svalutazione post-euro sui Titoli di Stato under foreign law è praticamente inutile perché c'è un problema più grosso che Bagnai, pur studiando tanto, non ha registrato: il problema è che non si può più contare sulla Lex monetae per ridenominare nella nuova moneta nazionale la maggior parte dei Titoli di Stato e dunque la maggior parte del debito pubblico.
Perché? Perché il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 7 dicembre 2012 ha stabilito che, a partire dal 1° gennaio 2013, le nuove emissioni di titoli di Stato aventi scadenza superiore ad un anno sono soggette alle clausole di azione collettiva (CACs).
Cosa sono le CACs?
Le CACs, introdotte obbligatoriamente ai sensi del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità (articolo 12, paragrafo 3), sono clausole relative ad "ogni modifica, cambiamento, integrazione o rinuncia ai termini ed alle condizioni dei Titoli, ovvero agli accordi che ne governano l’emissione o l'amministrazione" e determinano le regole con le quali è possibile modificare i termini e le condizioni dei Titoli stessi.
Tra le condizioni che possono essere modificate c'è anche il cambio di valuta ma per modificare i termini e le condizioni dei Titoli e dunque per ridenominare eventualmente i Titoli in circolazione cambiandone la valuta di emissione, le CACs stabiliscono che l'Emittente non può più agire unilateralmente ma può agire solo con
(a) (i) il voto favorevole dei possessori di almeno il 75% dell’ammontare nominale aggregato dei titoli di debito in circolazione rappresentati in separate assemblee, debitamente convocate, dei possessori dei titoli di debito di tutte le serie (considerate complessivamente) i cui termini e condizioni sono oggetto della modifica proposta; o
(a) (ii) una risoluzione scritta firmata da o per conto dei possessori di almeno il 66 2/3% dell’ammontare nominale aggregato dei titoli di debito in circolazione di tutte le serie (considerate complessivamente) i cui termini e condizioni sono oggetto della modifica proposta; e
(b) (i) il voto favorevole dei possessori di più del 66 2/3% dell’ammontare nominale aggregato dei titoli di debito in circolazione rappresentati in separate assemblee, debitamente convocate, dei possessori dei titoli di debito di ciascuna serie (considerata singolarmente) i cui termini e condizioni sono oggetto della modifica proposta; o
(b) (ii) una risoluzione scritta firmata da o per conto dei possessori di più del 50%
dell’ammontare nominale aggregato dei titoli di debito in circolazione di ciascuna serie (considerata singolarmente) i cui termini e condizioni sono oggetto della modifica proposta.
Quanti sono attualmente i Titoli che non potranno più essere ridenominati unilateralmente dall'Emittente, cioè dallo Stato italiano, applicando la Lex monetae?
Per saperlo occorre verificare anzitutto le emissioni del 2013, del 2014, del 2015 considerando che le CACs non riguardano i BOT ma solo Titoli aventi scadenza superiore ad un anno
Se consideriamo i Titoli aventi scadenza superiore ad un anno, cioè BTP, BTP €i, BTP Italia, CCT, CCTeu e CTZ , emessi nel 2013, nel 2014 e nel 2015 vediamo che il loro valore totale ammonta a
787 miliardi e 545 milioni
Se consideriamo che siamo a fine 2016 e nell'ipotesi che la quantità di Titoli di Stato emessa nell'anno in corso sia in linea con quella degli ultimi tre anni, è lecito supporre che il valore dei Titoli di Stato vincolati alle CACs e dunque non ridenominabili unilateralmente grazie alla Lex monetae sia attualmente di circa
1.000 miliardi di €
Non solo: tra 3 o 4 anni quasi tutti i Titoli di Stato aventi scadenza superiore ad un anno saranno probabilmente soggetti alle clausole di azione collettiva (CACs) e dunque il valore dei Titoli di Stato vincolati alle CACs e dunque non ridenominabili unilateralmente grazie alla Lex monetae potrebbe risultare superiore ai
1.500 miliardi di €
Cosa accadrebbe con un debito del genere, che non è più ridenominabile unilateralmente grazie alla Lex monetae, qualora una eventuale uscita dall'€ comportasse una svalutazione del 20, del 30 o del 50%?
È presto detto: nessuno accetterebbe di subire una perdita secca del 20, del 30 o del 50% sul valore dei Titoli di Stato in suo possesso e al quel punto l'Emittente, cioè lo Stato italiano, non potendo applicare la Lex monetae per ridenominare unilateralmente i Titoli emmessi, dovrebbe subire una rivalutazione del debito corrispondente alla svalutazione della moneta oppure dichiarare il default.
Quindi, per ipotesi, se domani uscissimo dall'€, un debito in Titoli di Stato non ridenominabili con la Lex monetae di 1.000 miliardi di € come quello attuale diventerebbe in pochi giorni o in poche settimane un debito di
1.200 miliardi di lire
sul quale, tra l'altro, dovremmo pagare interessi rivalutati del 20% (se la svalutazione non supera il 20%)
Non sarebbe di certo un impegno sostenibile ...
Ergo, Bagnai avrà pure studiato molto in questi anni ma evidentemente non ha studiato abbastanza perché non si è reso conto che la Lex monetae sta diventando sempre meno applicabile perché dal gennaio 2013 i Titoli di Stato a lunga scadenza non vengono più emessi in base alla legislazione nazionale ma vengono emessi con clausole che rendono estremamente complicata la ridenominazione, soprattutto se la ridenominazione implica una consistente perdita di valore dei Titoli.
In estrema sintesi: la dimostrazione anti-catastrofismo di Bagnai è priva di qualsiasi valore non solo per una certa superficialità nella presentazione dei dati ma soprattutto perché i dati corretti vanno inquadrati in una dimensione che a Bagnai è sfuggita del tutto e che non è per niente rassicurante.
Tutte le volte che ne ha l'occasione Bagnai sostiene che il debito pubblico non è un problema ma sbaglia: il debito pubblico è già un grosso problema adesso ma diventerebbe un problema enorme se uscissimo dall'€ perché non è più ridenominabile unilateralmente dallo Stato.
La questione del debito privato
Bagnai valuta che alla fine del 2014 il totale dei debiti privati non ridenominabili (cioè da rimborsare in valuta forte) fosse pari al 46% del Pil, un valore, secondo Bagnai, non trascurabile ma nemmeno catastrofico perché, eccezion fatta per la Germania, tutti gli altri paesi dell’Eurozona hanno esposizioni verso l’estero maggiori, con una media del 102% del Pil e perché se da una parte le esperienze storiche mostrano che quando il debito non ridenominabile supera il 30% del Pil, una svalutazione può compromettere la situazione finanziaria delle imprese, causando recessione dall'altra questa involuzione è riferibile per lo più a paesi emergenti, i cui mercati finanziari poco sviluppati non offrivano strumenti di copertura dal rischio di cambio.
Del resto, osserva Bagnai, la situazione italiana è diversa: lo dimostra il fatto che nel 1992 una svalutazione del 20% non provocò alcuna ondata di fallimenti.
Se alla fine del 2014 il totale dei debiti privati non ridenominabili (cioè da rimborsare in valuta forte) era pari al 46% del Pil, considerando che a fine 2014 il Pil valeva 1.620 miliardi e 381 milioni, allora il loro valore ammontava a 745 miliardi e 375 milioni. Se fossimo usciti dall'€ a fine 2014 e la nuova moneta si fosse svalutata del 20%, di quanto sarebbero aumentati questi debiti non ridenominabili? Il calcolo è facile: sarebbero aumentati di
149 miliardi e 75 milioni di lire
cioè il 20% di 745 miliardi e 375 milioni.
Furbescamente Bagnai non ha sviluppato questo calcolo elementare mentre ha dato risalto ai 9 miliardi che secondo lui sarebbero il costo (sopportabile) derivante dall'impossibilità di ridenominare la piccola quota del debito pubblico emesso sotto legislazione estera.
Perché? Perché uno degli scopi principali della
narrazione accattivante di Bagnai (sulla
tecnica della narrazione accattivante cfr. il post
Bagnai, le banche centrali e i Bund alemanni) è quello di minimizzare i rischi di un Euro-exit: se il dato è utile per convincere il lettore che una eventuale uscita dall'€ non è pericolosa, allora il dato viene messo in risalto, se il dato è problematico perchè potrebbe suscitare nel lettore qualche dubbio sull'opportunità di tornare alla moneta nazionale, allora il dato viene avvolto da una cortina fumogena di chiacchiere senza costrutto tipo la ricorrente analogia con la svalutazione del '92.
A parte il fatto che
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
uscire da un accordo di cambi fissi non è come uscire da una moneta unica
a parte che se si vuole vedere un'analogia tra la svalutazione del '92 e le probabili conseguenze di una eventuale uscita dall'€
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
bisogna prendere in considerazione tutti i dati e non solo quelli che fanno comodo
la vera domanda è: un ipotetico aumento del debito privato non ridenominabile di
149 miliardi e 75 milioni di lire
potrebbe essere un impegno sostenibile e non catastrofico per l'Italia post-euro?
Bagnai fa presente che oltre ai debiti abbiamo anche crediti under foreign law ma non ne specifica la quantità e quindi non si capisce se tali crediti potrebbero mitigare significativamente il peso dei debiti non ridenominabili.
Proviamo allora a vedere a quanto ammonta il debito estero netto, cioè il debito privato e pubblico netto verso l'estero: secondo l'ultimo dato Eurostat disponibile il debito estero netto vale attualmente il 60.2% del Pil mentre a fine 2014 valeva il 58.7% del Pil e a fine 2015 valeva il 59.7% del Pil.
Sorge spontanea la domanda: davvero qualcuno può pensare che uscire domani dall'€ con un debito estero netto, in gran parte non ridenominabile, di circa
1.000 miliardi di €
potrebbe essere un impegno sostenibile e non catastrofico per l'Italia post-euro?
In ultima analisi, le prove addotte da Bagnai per confutare il catastrofismo sono inconsistenti (il saggio di Rose è inservibile, il ricorso alla Lex Monetae per minimizzare gli effetti sul debito pubblico di un'uscita dall'€ è un'arma spuntata, contrariamente a quello che vorrebbe far credere Bagnai l'impatto di una svalutazione di una certa ampiezza sul debito privato non ridenominabile potrebbe essere estremamente negativo) e la sfida dei dati ci mostra che i professoroni che propugnano l'Euro-exit hanno un rapporto a dir poco disinvolto con i dati stessi: esaltano quelli che in apparenza rinforzano le proprie teorie ma tralasciano quelli problematici e ignorano quelli decisivi.
Il risultato complessivo è che la critica e la presunta confutazione del catastrofismo sono talmente deboli da alimentare la convinzione che i rischi di un Euro-exit (probabile impatto negativo su quota salari, salari reali e occupazione e difficoltà enormi nel gestire il debito pubblico e quello privato) siano davvero troppo rilevanti rispetto ai presunti benefici.